2.21.2012

sulle Missioni internazionali

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Perduca. Ne ha facoltà.



PERDUCA (PD). Signora Presidente, il senatore Di Giovan Paolo ha affrontato molti dei temi che avrei voluto mettere al centro del mio intervento. Concordo al 100 per cento con quanto egli ha detto perché negli anni scorsi abbiamo, anche se non molti, insistito sul porre al centro dell'attenzione di questo dibattito, che dovrebbe, a norma di Regolamento, trattare esclusivamente, della necessità di procrastinare il finanziamento a una presenza italiana in giro per il mondo. Cercherò quindi di parlare di qualcosa di diverso, che però non è altro.


Noi abbiamo aggiunto un articolo 10-bis a questo decreto, con il quale si chiede al Governo di informare o, comunque, di comunicare al Parlamento l'andamento delle missioni ogni quattro mesi. Ora, per evitare di trovarci ad avere un dibattito fotocopia ogni quattro mesi occorrerebbe, nel frattempo, non soltanto aspettare la scadenza fissata dal Parlamento e preparare una relazione, ma agire sulla base delle cose che, sia in Commissione che in Aula, i senatori articolano come proposte che vadano oltre quel riconoscimento che tutti continuiamo (in buona parte, ma non necessariamente tutti) a tributare alle nostre Forze armate impegnate nel mondo, riconoscendo loro che sono la punta di lancia della nostra politica estera.


Se da una parte questo è sicuramente un aspetto positivo della questione, dall'altro non deve essere un motivo di vanto per un Paese Democratico. Noi riteniamo, infatti, che siano le armi della politica quelle che devono arrivare ad affrontare i problemi: sia che si tratti di conflitti in corso, sia che si tratti di gestione della pace portata manu militari o attraverso altri modi, sia che si tratti di cercare di prevenire, quando si può, uno scontro armato.


Parliamo di due casi separati. Tra l'altro, è appena arrivata un'agenzia di stampa, che riferisce dell'uccisione di 100 persone nel corso di scontri tribali nel Sud della Libia. Noi riteniamo di aver fatto un buon lavoro in Libia, tanto è vero che vi abbiamo lasciato - sì e no - una dozzina di persone, come presenza italiana in divisa nel Paese. Abbiamo fatto sicuramente cosa buona a sostituire Gheddafi, anche se non avremmo dovuto ammazzarlo, bensì portarlo davanti al Tribunale dell'Aja, anche perché così ci era stato detto che avremmo dovuto operare all'inizio dell'anno scorso.


Abbiamo cambiato, se non altro, il colore della bandiera; non credo che abbiamo cambiato la qualità del Governo, ma questo è un discorso che affronteremo in un altro momento. 100 persone sono morte, dove si ritiene di avere portato un nuovo contesto di speranza, pace, libertà e - detto tra molte virgolette - democrazia.


Negli stessi giorni in cui iniziavano le rivolte in Libia sono iniziate anche in Siria, ma la fondamentale differenza esistente tra la rivolta libica e quella siriana (e qui occorreva, e continua ad occorrere, una risposta politica) è che mentre in Libia si è subito passati alla resistenza armata, per otto mesi in Siria si è andati avanti con una resistenza non violenta.


Alla fine dell'estate, poi, non vedendo nessun tipo di reazione politica da parte degli occidentali (perché, personalmente, non credo che a una crisi regionale debba esistere una risposta regionale), tutti i piani portati avanti dall'Unione africana sono andati a fracassare contro i problemi che tutti coloro che conoscono un po' i dibattiti interni sanno esistere all'interno di questi tipi di organizzazioni. Tali dinamiche creano ostacoli al ritrovamento delle soluzioni, e lo stesso dicasi per quanto riguarda le lodevoli iniziative portate avanti dalla Lega araba.


Il silenzio dell'occidente ha portato i siriani, chiaramente, come avvenne anche in alcuni frangenti della guerra nella ex Jugoslavia, a creare un esercito di liberazione (se finanziato o non finanziato dall'occidente e se armato o non armato dall'occidente, anche questo è discorso che qui non possiamo affrontare), ma che comunque sta portando avanti una rivolta manu militari.


È chiaro che, portati alle estreme conseguenze, uno alla fine dovrà ulteriormente assumersi delle responsabilità gravissime non perché si vada a sostenere l'aggredito nei confronti dell'aggressore, ma perché ancora una volta si è scartata fin dall'inizio l'opzione non violenta. Non lo dico perché il Partito Radicale - per l'appunto non violento - ha voluto mettere questo aggettivo nel suo nome, ma perché l'opzione non violenta - come documentano studi dei centri di ricerca più avanzati - è quella che, oltre che salvare centinaia di migliaia di vita umane, garantisce una transizione più veloce e strutturale del regime, costruendo un nuovo contesto dove libertà e democrazia riescono a prendere radice più velocemente che altrove.


Basterebbe andare a vedere alcuni esempi della cosiddetta primavera araba dell'anno scorso, dove ancora una volta nessuno dall'Occidente disse più di tanto, per farci ricordare che quando i tunisini iniziarono a scendere in piazza per chiedere che Ben Ali abbandonasse il Paese, si è arrivati in maniera molto più indolore che altrove ad un cambiamento di regime.


A questo punto tutti coloro che in passato hanno votato a favore di questo provvedimento ed anche i radicali, che un paio di volte non hanno partecipato al voto, sono ora a favore perché fortunatamente si è posto rimedio al fatto che in esso era stato infilato quasi tutto e molto di questo tutto non faceva parte del titolo del provvedimento stesso, relativo al rinnovo della nostra presenza alle missioni all'estero.


Siamo quindi tutti a favore di questo provvedimento, ma non credo, visto e considerato che la scadenza è stata fissata tra quattro mesi, che si possa arrivare a replicare questo tipo di dibattito. Non c'interessa sapere quanti sono i mezzi lince o quali sono le bombe che vengono sganciate dagli aerei italiani in giro per il mondo, se ce ne è la necessita, ma c'interessa sapere quali sono le linee di politica estera dell'Italia all'interno della Nato, all'interno dell'Unione europea e all'interno della Nazioni unite. Il resto va bene per le riviste specializzate, ma non per un'Aula parlamentare. (Applausi dal Gruppo PD).

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