7.14.2009

Discussione e approvazione della mozione n. 150 su Gilad Shalit

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Perduca. Ne ha facoltà.

PERDUCA (PD). Signor Presidente, sono uno dei cofirmatari della mozione non soltanto perché sono membro della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani dove il signor Noam Shalit è venuto a parlarci di suo figlio prima di andare a Ginevra per deporre davanti alla Commissione delle Nazioni Unite per volere dell'Alto commissario per i diritti umani delegato, su mandato del Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani, a portare avanti le indagini su ciò che è avvenuto all'inizio dell'anno tra Gaza e Israele, ma anche perché ritengo opportuno che si pongano all'attenzione del nostro dibattito, seppur fatto tra pochi presenti, questioni che hanno a che fare sicuramente con un dramma umano, che speriamo non evolva in tragedia, altrettanto sicuramente con la cogenza del diritto internazionale e, infine, con la situazione politica generale che attiene alla pace in Medio Oriente.

Cosa è accaduto a Gilad Shalit è stato ricordato in fase di illustrazione della mozione dal senatore Marceraro. Mentre si trovava in territorio israeliano e stava pattugliando per la sicurezza del suo Paese è stato preso in ostaggio da una pattuglia di Hamas che si era introdotta all'interno del confine israeliano attraverso un tunnel improvvisato sotto terra.

Così stando le cose, secondo il diritto internazionale e tutte le convenzioni di Ginevra - e in modo più articolato come indicato nei primi due protocolli aggiuntivi alle convenzioni stesse - la presa di ostaggi è da considerarsi crimine di guerra e quindi passibile di sanzioni a livello internazionale per quanto riguarda il diritto consuetudinario.

È noto, infatti, che Israele e l'Autorità nazionale palestinese, che comunque non rappresenta ancora - e poi ci arriveremo - uno Stato indipendente, riconoscono la giurisdizione dell'altro organo permanente, che avrebbe competenza per giudicare i crimini internazionali, vale a dire la corte penale internazionale davanti alla quale però i palestinesi vorrebbero che Israele venisse portato per il modo in cui è stato condotto, all'inizio dell'anno, dall'esercito israeliano il conflitto.

Noam Shalit, il padre di Gilad, dopo averci raccontato cosa sta vivendo da tre anni a questa parte, ha deposto davanti alla Commissione delle Nazioni Unite presieduta dal giudice Goldstone che dovrebbe arrivare alla stesura di un documento da cui, in effetti, si arrivi a dimostrare, documentare ed articolare specifici capi di imputazione nei confronti di Gerusalemme per la guerra dell'inizio dell'anno.

Egli non si è rivolto soltanto ai commissari presenti, ma anche a Hamas, che in quanto carceriere ritiene responsabile di un crimine di guerra, e ai palestinesi, che sono vittime di questo stato di cose. Non ha voluto rievocare nel suo percorso storico l'intera situazione perché ci tiene a sottolineare di non essere diventato, malgrado ciò che gli è accaduto, un politico - in Italia sarebbe immediatamente diventato un leader di una fazione politica - ma di agire soltanto nella veste di un padre al quale hanno rapito un figlio di cui non si hanno notizie, salvo una breve videocassetta in cui si riesce a capire che in effetti Gilad è ancora vivo.

Questo documento - concordo con quanto detto negli ultimi due interventi e in modo particolare con le parole del senatore Pardi - ci da oggi la possibilità di affrontare la questione relativa alla pace nel Medio Oriente in modo tale da trovarsi tutti d'accordo, se non altro su alcune premesse. Ritengo sia utile ricordare ancora una volta il dispositivo secondo cui il Senato «impegna il Governo a promuovere, in linea di continuità con la politica estera italiana, ogni possibile azione perché Gilad venga liberato e perché il processo di pace possa riprendere dall'assunto "due popoli, due Stati" e dal riconoscimento reciproco delle sofferenze patite da ambo le parti in tanti anni di conflitto e dagli elevatissimi costi umani».

Ebbene, se si ritiene, come è evidente, che le due questioni, vale a dire quella del sequestro di un militare di uno Stato democratico che, unico in quella regione, è ancora oggi costretto a pattugliare i confini del proprio Stato a fronte della possibilità di essere attaccato - un particolare da tenere sempre presente quando si parla del conflitto israelo-palestinese - e quella della pace da perseguire tra Israele e Palestina siano intimamente connesse, è necessario riprendere il dialogo in linea con la tradizionale politica estera italiana, che purtroppo nel merito della questione non ha mai svettato per particolare equidistanza in passato, arrivando pochi anni fa addirittura ad una equivicinanza e ad un sostegno nei confronti di alcune tra le parti in causa di maggior rilievo. Hamas ed Hezbollah rappresentano infatti il problema dei problemi. Si tratta di gruppi che svolgono contestualmente un'azione politica e militare tale da minare nel profondo non tanto la sicurezza d'Israele quanto la libertà stessa dei palestinesi e che chiamano in causa anche il ruolo che l'Iran direttamente ed indirettamente, attraverso la Siria e i suoi tentacoli in Libano, ha giocato nella destabilizzazione permanente della regione.

Se si pensa dunque di recuperare invece una linea tradizionale di politica italiana di equidistanza, in parte fortunatamente messa in discussione dal Governo Berlusconi, tanto che il ministro Frattini più volte è venuto a dirci che l'Italia è uno dei Paesi più vicini ad Israele - e forse, conoscendo la politica degli altri 26 Paesi membri dell'Unione europea, il più vicino - è necessario riprendere il cammino della ricerca della pace dall'assunto "due popoli, due Stati".

Credo che solo in questo modo si può arrivare alla conclusione che con gli assunti non si può fare politica.

La politica si fa con delle proposte, chiaramente complesse, all'interno di un contesto in cui il principio la terra per la pace non ha funzionato. Finché insisteremo con una formula o uno slogan che, come è stato detto poco fa, magari era felice nel momento in cui è stato pronunciato la prima volta (perché due popoli che hanno dimostrato ampiamente di non voler vivere insieme non devono vivere insieme), fino ad allora la pace non sarà alla nostra portata.

La pace oggi sarebbe soltanto fotografare l'esistente. Ammesso e non concesso che, comunque, i soggetti da coinvolgere non sarebbero soltanto il Governo israeliano ma anche due fazioni palestinesi spesso in conflitto fra di loro, tale fotografia riprenderebbe uno Stato democratico che, in virtù della necessità di affermare la propria sicurezza spesso arriva a sospendere - ahinoi! - molte delle libertà civili che, comunque, continuano a caratterizzarlo come l'unica democrazia in Medio Oriente (ancora di più della Repubblica turca). D'altra parte, però, è una terra di nessuno cui noi, però, continuiamo a fornire soldi, spesi magari per acquistare alcune delle armi utilizzate negli ultimi conflitti.

Non credo che adottare una mozione, a seguito anche di un dibattito (per quanto breve e articolato), possa aiutarci, come auspicato poco fa dal senatore Bodega, in primis ad arrivare con più forza al momento in cui Gilad Shalit potrà tornare a casa. Molto probabilmente, però, essa può aiutarci a recuperare una possibilità di pace fra questi due popoli, che solo se diventeranno una democrazia potranno avere la speranza di vedere i principi di libertà, giustizia e stato di diritto garantiti per i milioni di israeliani e per i milioni dai palestinesi.

Quindi, recuperando uno slogan efficace ma - ahinoi - non praticato in buona fede dell'Amministrazione Bush, occorre sperare che un effetto domino possa interessare tutti i Paesi che circondano questo territorio: laddove la democrazia è debole e fragile, come in Libano e in Giordania, e laddove stenta a manifestarsi nei suoi tratti liberali, come in Egitto.

Il Congresso del 2008 di Radicali Italiani ha adottato una raccomandazione nella quale si invitavano i parlamentari radicali italiani e europei a promuovere una missione parlamentare a Gaza, che si impegnasse a non lasciare la Striscia fino a quando non si sarebbe potuto incontrare il soldato Shalit e verificare le sue condizioni di salute. La missione avrebbe dovuto essere di carattere umanitario, aperta a chiunque intendesse parteciparvi e, se necessario, i Gruppi parlamentari presenti avrebbero dovuto garantire una loro presenza in loco fino al giorno in cui Gilad Shalit non fosse stato liberato da Hamas.

Non abbiamo trovato la forza (ma per certi aspetti forse bisognerebbe chiamare in causa anche il coraggio) di andare a Gaza e imporre questo, perché sarebbe stata una delle classiche mosse ad effetto per la ricerca di quella visibilità mediatica che, troppo spesso, caratterizza gli amici degli Israeliani o dei Palestinesi.

Vista la dichiarata, e in parte anche praticata, vicinanza di Roma a Gerusalemme (non credo, infatti, che si possa facilmente dimenticare cosa ha fatto il Governo italiano in occasione della Conferenza di Durban), io ritengo che si debba insistere affinché tutti gli Stati europei (ricordo che Gilad Shalit è cittadino francese) si assumano la responsabilità di considerare la possibilità di fare entrare Israele quanto prima all'interno dell'Unione europea, così da portare in casa nostra il problema di trovare la pace con i palestinesi all'interno del diritto internazionale. (Applausi del senatore Bodega).

1 comment:

lisa said...

Bravo, MArco!