1.05.2014

traccia capitolo 2 romanzo 'niente da dichiarare' (titolo provvisorio)

La mattina del 19 novembre, il giorno dopo l'arrivo di Vladimir a Tiblisi, buona parte della città che conta aveva dovuto leggere il Wall Street Journal. Il quotidiano di New Yorkk aveva pubblicato un lungo pezzo corredato di foto su uno dei capi della resistenza armata al regime del dittatore siriano Assad. Nel giro di poche ore la notizia era diventata un'affair georgiano, infatti Terkhan Vatirashvili, un ex militare di madre kist, una popolazione di origine cecena che vive nella valle di Pankisi, dopo aver combattuto nella seconda guerra cecena tra l'estate del 1999 fino alla tarda primavera dell'anno dopo e poi in quella che la Georgia lanciò contro i russi nell'estate del 2008 quando l'Ossezia meridionale e l'Abkhazia erano tornate ad affermare le proprie pretese indipendentiste con la forza grazie al sostegno della Russia, si era definitivamente convertito alla religione della madre diventando in breve tempo convinto che occorresse difendere e promuovere l'Islam sunnita coll'uso della forza.

Dall'autonno del 2011 si era trasferito in Siria dove in poco tempo, grazie alla sua esperienza militare, era diventato capo della resistenza più violenta e ideologicamente più fondamentalista al regime di Damasco. Nei primi tempi le sue brigate, composte per lo più di non siriani reduci principalmente dal conflitto in Libia dell'estate precendente, si erano unite ai gruppi estremisti sunniti della brigata di combattenti Jaish al-Muhajireen wal-Ansar brevemente affiliati all'armata che voleva stabilire uno stato islamico in Iraq e in tutto il levante. Vatirashvili guidava i suoi guerrieri col nome di Abu Omar al-Shishani. Un nome comune ai convertiti e cognome comunissimo nelle comunità cecene emigrate nel mondo arabo. Un fenomeno molto preoccupante per un paese che di guerre al proprio interno e ai confini ne aveva viste troppe.

La notizia che un georgiano, un Vatirashvili del villaggio di Birkiani con la sua lunga barba rossa, fosse a capo di un brigata di mujaiden per combattere una guerra lontano da casa aveva scioccato Tiblisi. In un paese dove le ferite inferte alla piena sovranità nazionale restavano ancora aperte, sapere che dei giovani patrioti avesser deciso di abbracciare cause lontane arrivando addirittura a trasformarsi in combattenti in nome di Allah era come buttare del sale sopra le piaghe degli ultimi venti anni di conflitti armati nel Caucaso.

La notizia delle gesta di Abu Omar al-Shishani aveva suscitato lo stesso clamore dei due attentanti che tra maggio e giugno dello stesso avevano fatto 10 morti nel contingente georgiano in Afghanistan. Dal 2004 la Georgia era presente sul teatro afgano con oltre 1500 militari parte di una missione di assistenza alla International Security Assistance Force, ISAF. I soldati georgiani erano stati dispiegati sia nella capitale Kabul che nei distretti di Nawzad e Musa Qala nella provincia meridionale dell'Helmand. La Georgia aveva in Afghanistan il più consistente dei contingenti dei paesi non NATO ed aveva scelto di investire molto in quella missione con la speranza che il Consiglio atlantico avesse apprezzato la vicinanza all'Occidente premiando tanta generosità acconsentendo all'ingresso della Georgia nell'Alleanza contro le rimostranze sempre più prepotenti di Mosca.

La presenza georgiana in Afghanistan era già assurta agli onori della cronaca con la vicenda del sergente Giorgi Gigadze, scomparso nel dicembre dell'anno prima e ritrovato morto dopo settimane dopo torture dei talebani sempre in Helmand. Nessuno aveva mai capito il perché un sergente georgiano potesse rappresentare un nemico pericoloso, o un ostaggio prezioso, per i guerriglieri afgani né furono mai chiarite le circostanze del suo ritrovamento.

Vladimir era stato solo brevemente in Afghanistan, intorno al 2005. Se nascosta da barba e un turbante la sua faccia, come quella dei georgiani del resto, consentiva di infiltrarsi nelle comunità pashtun senza dare troppo nell'occhio. La sua missione era quella di seguire in particolare i traffici di oppio. Musa Qala era una zona che Vladimir aveva battuto, si trattava di una zona pressoché desertica controllata dalla tribù degli Alizai dediti principalmente al florido traffico del papavero afghano. Nessuno era estraneo al commercio di tonnellate e tonnellate di materiale grezzo prodotto da decine di migliaia di contadini trattati come servi della gleba. Il raccolto in una minima parte veniva raffinato in zona con una tecnologia ereditata dai laboratori sovietici esportati negli anni '80, il grosso delle coltivazioni veniva trasportato dai vari gruppi baluci verso l'Iran e il Pakistan dove trovava la via dell'Occidente attraverso i porti franchi di Bandar Beheshtie Gwadar.

Vladimir non doveva interessarsi della folle guerra alla droga, che in quegli anni rischiava di divenire una vera e propria guerra contro l'ambiente perché alle Nazioni Unite e alla Casa Bianca avevano deciso di esportare in Afghanistan la tecnica delle fumigazioni aeree che aveva avvelenato valli e fiumi in Colombia, Vladimir era in Afghanistan per indagare su alcune soffiate circa infiltrazioni criminali nelle truppe dell'ISAF. Troppo spesso si verificavano 'incidenti' in cui venivano bombardati per errore obiettivi civili e, altrettanto troppo spesso, arrivava notizia di morti di militari occidentali in circostanze oscure. Quando aveva letto distrattamente della vicenda del sergente georgiano scomparso e poi trovato morto si ricordò di alcuni casi simili su cui aveva lavorato. Si trattava di vendette e regolamenti di conto che non avevano niente a che vedere con la missione di peacekeeping ma che allo stesso tempo non dovevano intralciare colla nobile missione dei caschi blu e per questo dovevano essere indagate, dimostrate, individuati i responsabili e insabbiate perché nessuno dell'amministrazione civile venisse a conoscenza.

La tragica sorte del sergente Gigadze e gli attacchi ai militari georgiani nell'Helmand gli avevano risvegliato ricordi che aveva cercato di seppellire nella parte più oscura della sua coscienza e che non avrebbe più voluto frequentare.

 

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