11.05.2012

#opensenato intervento sulla delega al Governo sullo strumento miilitare

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Perduca. Ne ha facoltà.

PERDUCA (PD). Signora Presidente, parto da un inciso della senatrice Negri relativamente alla cessione di sovranità. Ancora una volta ci troviamo ad agire in Parlamento in base ad una cessione di sovranità, vale a dire non tanto perché nelle Commissioni competenti del Senato siano maturate alcune convinzioni o la necessità di procedere ad una riforma - o meglio ad una presunta riforma - dello strumento militare, quanto perché il Presidente della Repubblica ritiene si debba fare presto. La fretta, da una parte, è cattiva consigliera, dall'altra, non sempre consente di fare presto e bene ciò che per anni non si è riusciti a fare.

Per quanto in Commissione il documento sia stato migliorato, non si può arrivare a considerare ciò che oggi affrontiamo come una vera e propria riforma. Infatti, giustamente, sia nelle relazioni sia nell'intervento di poco fa della senatrice Negri, si parla di razionalizzazione delle spese ma non di una vera e propria riforma strutturale dello strumento militare.

Su alcuni aspetti del disegno di legge interverremo con degli emendamenti che illustrerò più avanti, ma il problema di fondo è legato proprio ad un inciso, aggiunto in Commissione, di riferimento (mero riferimento) alla politica di difesa comune europea.

Il caso, alle volte, fa bene le cose: il Presidente di questa seduta, quando era Commissario europeo, nella metà degli anni '90, lanciò un'iniziativa per una politica europea che avesse a che fare con la diplomazia e la difesa, unendo quindi la politica e la necessità dell'attivazione di uno strumento militare a livello comunitario. Quella di una quindicina di anni fa era senz'altro un'altra Unione europea, ma sicuramente allora avrebbero dovuto essere prese tutte le necessarie decisioni perché si arrivasse oggi ad avere uno strumento che, a differenza di quanto avviene ad esempio nella Federazione degli Stati Uniti d'America, privilegi la capacità di poter mandare i soldati in giro per il mondo (nessuno oggi si aspetta più di poter difendere i propri confini da invasioni) fondandosi su un 20 per cento di spesa relativa alla struttura e tutto il resto dedicato, da una parte, all'approvvigionamento delle più recenti tecnologie e, dall'altra, alla capacità di invio quasi immediato di contingenti addestrati ad intervenire. Non parlo dell'Italia dove il modello è rovesciato: l'80 per cento è costituito da struttura e dipendenti e neanche il 20 per cento da approvvigionamento e capacità di deployment nei teatri importanti.

Se dovessimo guardare alla sommatoria dei 27 Stati dell'Unione europea, si arriverebbe, nella migliore delle ipotesi, ad un 55 per cento di struttura e il resto per essere pronti a rispondere alle esigenze che il mondo oggi ci richiede di dover prendere in considerazione. Ma anche in quel caso, se dovessimo entrare nel dettaglio (e recentemente lo European Council on Foreign Relations ha prodotto uno studio), si vedrebbe che questo 45 per cento di struttura (stiamo parlando di centinaia di migliaia di persone in divisa in tutta l'Europa) non sarebbe pronto in queste ore ad andare laddove c'è necessità.

Allora mi domando perché si debba arrivare oggi a prendere delle decisioni; tra l'altro non sono delle vere e proprie decisioni del Parlamento. Certo, il Parlamento sarà coinvolto nel controllare (questo è anche frutto del lavoro della Commissione) cosa avverrà un domani, ma non si dà un ulteriore indirizzo forte nella necessità di europeizzare questo settore, che tradizionalmente (però stiamo parlando del XX secolo se non addirittura del XIX) era un qualcosa che non poteva essere devoluto ad altro tipo di organizzazione neanche regionale, ma che oggi non può rimanere l'unica manifestazione della nostra sovranità nazionale, visto e considerato che l'altra tipica, cioè la moneta, l'abbiamo data ad un'organizzazione regionale e ci siamo avviati in un servizio diplomatico europeo.
Quindi credo che occorresse essere più decisi in questa europeizzazione e allo stesso tempo che la scadenza o comunque la necessità di questo ritmo serrato di riforma non vada nella direzione giusta.
Faccio un ultimo ragionamento relativamente alla tradizione politica radicale che è non-violenta, quindi non-pacifista, e che per alcuni di noi è anche antimilitarista, nel senso che per noi occorre anteporre sempre prima le armi della politica laddove si deve andare a portare la pace, a garantire la stabilità e, allo stesso tempo, promuovere il rispetto dei diritti umani e le riforme democratiche, piuttosto che andare invece manu militari. Non dico che oggi si prediliga al cento per cento prima l'invio delle truppe piuttosto che l'iniziativa politica, ma se dovessimo prendere in considerazione la politica estera italiana l'unico motivo di vanto, ahinoi, tolte quelle due o tre iniziative alle Nazioni Unite relative all'abolizione della pena di morte e alla lotta contro le mutilazioni genitali femminili, è la nostra presenza alle missioni internazionali di pace.

Credo che occorra riflettere su quali debbano essere le priorità della politica italiana a tutto tondo. Di sicuro non possiamo esclusivamente farci vanto delle nostre pur capaci e competenti presenze in tutto il mondo (e cogliamo l'occasione ancora una volta per esprimere i nostri sentimenti di cordoglio alle famiglie degli ultimi caduti in queste ore nei teatri più complessi), perché, come ha detto anche il presidente Monti di ritorno dall'Afghanistan, lì occorre portare la politica e non soltanto le persone in divisa. (Applausi dal Gruppo PD).

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