PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Perduca. Ne ha facoltà.
PERDUCA (PD).
Signora Presidente, parto da un inciso della senatrice Negri
relativamente alla cessione di sovranità. Ancora una volta ci troviamo
ad agire in Parlamento in base ad una cessione di sovranità, vale a dire
non tanto perché nelle Commissioni competenti del Senato siano maturate
alcune convinzioni o la necessità di procedere ad una riforma - o
meglio ad una presunta riforma - dello strumento militare, quanto perché
il Presidente della Repubblica ritiene si debba fare presto. La fretta,
da una parte, è cattiva consigliera, dall'altra, non sempre consente di
fare presto e bene ciò che per anni non si è riusciti a fare.
Per quanto in Commissione il
documento sia stato migliorato, non si può arrivare a considerare ciò
che oggi affrontiamo come una vera e propria riforma. Infatti,
giustamente, sia nelle relazioni sia nell'intervento di poco fa della
senatrice Negri, si parla di razionalizzazione delle spese ma non di una
vera e propria riforma strutturale dello strumento militare.
Su alcuni aspetti del disegno di
legge interverremo con degli emendamenti che illustrerò più avanti, ma
il problema di fondo è legato proprio ad un inciso, aggiunto in
Commissione, di riferimento (mero riferimento) alla politica di difesa
comune europea.
Il caso, alle volte, fa bene le
cose: il Presidente di questa seduta, quando era Commissario europeo,
nella metà degli anni '90, lanciò un'iniziativa per una politica europea
che avesse a che fare con la diplomazia e la difesa, unendo quindi la
politica e la necessità dell'attivazione di uno strumento militare a
livello comunitario. Quella di una quindicina di anni fa era senz'altro
un'altra Unione europea, ma sicuramente allora avrebbero dovuto essere
prese tutte le necessarie decisioni perché si arrivasse oggi ad avere
uno strumento che, a differenza di quanto avviene ad esempio nella
Federazione degli Stati Uniti d'America, privilegi la capacità di poter
mandare i soldati in giro per il mondo (nessuno oggi si aspetta più di
poter difendere i propri confini da invasioni) fondandosi su un 20 per
cento di spesa relativa alla struttura e tutto il resto dedicato, da una
parte, all'approvvigionamento delle più recenti tecnologie e,
dall'altra, alla capacità di invio quasi immediato di contingenti
addestrati ad intervenire. Non parlo dell'Italia dove il modello è
rovesciato: l'80 per cento è costituito da struttura e dipendenti e
neanche il 20 per cento da approvvigionamento e capacità di deployment nei teatri importanti.
Se dovessimo guardare alla sommatoria dei 27
Stati dell'Unione europea, si arriverebbe, nella migliore delle ipotesi,
ad un 55 per cento di struttura e il resto per essere pronti a
rispondere alle esigenze che il mondo oggi ci richiede di dover prendere
in considerazione. Ma anche in quel caso, se dovessimo entrare nel
dettaglio (e recentemente lo European Council on Foreign Relations
ha prodotto uno studio), si vedrebbe che questo 45 per cento di
struttura (stiamo parlando di centinaia di migliaia di persone in divisa
in tutta l'Europa) non sarebbe pronto in queste ore ad andare laddove
c'è necessità.
Allora mi domando perché si debba arrivare oggi a
prendere delle decisioni; tra l'altro non sono delle vere e proprie
decisioni del Parlamento. Certo, il Parlamento sarà coinvolto nel
controllare (questo è anche frutto del lavoro della Commissione) cosa
avverrà un domani, ma non si dà un ulteriore indirizzo forte nella
necessità di europeizzare questo settore, che tradizionalmente (però
stiamo parlando del XX secolo se non addirittura del XIX) era un
qualcosa che non poteva essere devoluto ad altro tipo di organizzazione
neanche regionale, ma che oggi non può rimanere l'unica manifestazione
della nostra sovranità nazionale, visto e considerato che l'altra
tipica, cioè la moneta, l'abbiamo data ad un'organizzazione regionale e
ci siamo avviati in un servizio diplomatico europeo.
Quindi credo che occorresse essere più decisi in
questa europeizzazione e allo stesso tempo che la scadenza o comunque
la necessità di questo ritmo serrato di riforma non vada nella direzione
giusta.
Faccio un ultimo ragionamento relativamente alla
tradizione politica radicale che è non-violenta, quindi non-pacifista, e
che per alcuni di noi è anche antimilitarista, nel senso che per noi
occorre anteporre sempre prima le armi della politica laddove si deve
andare a portare la pace, a garantire la stabilità e, allo stesso tempo,
promuovere il rispetto dei diritti umani e le riforme democratiche,
piuttosto che andare invece manu militari. Non dico che oggi si
prediliga al cento per cento prima l'invio delle truppe piuttosto che
l'iniziativa politica, ma se dovessimo prendere in considerazione la
politica estera italiana l'unico motivo di vanto, ahinoi, tolte quelle
due o tre iniziative alle Nazioni Unite relative all'abolizione della
pena di morte e alla lotta contro le mutilazioni genitali femminili, è
la nostra presenza alle missioni internazionali di pace.
Credo che occorra riflettere su quali debbano
essere le priorità della politica italiana a tutto tondo. Di sicuro non
possiamo esclusivamente farci vanto delle nostre pur capaci e competenti
presenze in tutto il mondo (e cogliamo l'occasione ancora una volta per
esprimere i nostri sentimenti di cordoglio alle famiglie degli ultimi
caduti in queste ore nei teatri più complessi), perché, come ha detto
anche il presidente Monti di ritorno dall'Afghanistan, lì occorre
portare la politica e non soltanto le persone in divisa. (Applausi dal Gruppo PD).
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