3.18.2009

Sul Testo unificato Calabrò

Ripresa della discussione del disegno di legge
n.
10-51-136-281-285-483-800-972-994-1095-1188-1323-1363-1368
(ore 20)

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Perduca. Ne ha facoltà.

PERDUCA (PD). Signora Presidente, mi sarebbe piaciuto dire signori del Governo, ma i banchi sono deserti. Ecco, è arrivato adesso.

PRESIDENTE. No, senatore Perduca, il signor Sottosegretario è sempre stato qui, forse si è distratto lei un attimo. Il Governo è qui da lungo tempo, da sempre. (Commenti del senatore Gramazio).

PERDUCA (PD). Si chiama funzione fatica, la verifica della realtà, perché mi pare di aver inteso dall'ultimo intervento del senatore Massidda che qui viviamo due realtà parallele: la prima, dove addirittura c'è chi esulta per la morte di qualcuno in quest'Aula (posso ricordare eventualmente altri tipi di reazione, ma non certo l'esultanza relativamente alla morte di qualcuno); l'altra, quella che ritiene che con questa legge non ci siano più accabbadore.

Questa è la classica legge per cui tutto ciò che è accaduto fino ad oggi, e che ha costituito il cuore del disegno di legge sull'eutanasia - dunque non su questioni da lei presentate nel 2004 - di cui poc'anzi ho parlato nel fare riferimento alla questione sospensiva, continuerà ad accadere perché con il provvedimento in esame non ci si vuole porre di fronte ad un fenomeno che esiste.

Come spesso accade su ciò che viene proposto da questa maggioranza, sulla base di dogmi e proclami ideologici, ci si limita a dire di no, che è vietato, che deve essere proibito, nella speranza di poter governare un fenomeno manifestando tolleranza zero, come è stato poc'anzi ricordato.

Dal momento che si vive invece in un mondo leggermente diverso in cui nessuno esulta per la morte di qualcun altro e purtroppo continua ad esistere un fenomeno di eutanasia clandestina, è probabile anche che sia necessario riportarsi alla realtà che ci contraddistingue e ci circonda.

Pertanto, prima di entrare nel merito dell'intervento che sto svolgendo in discussione generale, che non sarà breve, colgo l'appello lanciato stamani dal dottor Rocco Berardo, tesoriere dell'associazione «Luca Coscioni» che, insieme all'associazione «A Buon Diritto», ha lanciato una campagna nazionale perché gli italiani sottoscrivano il proprio testamento biologico, anche in considerazione del fatto che nei documenti che sono stati fatti circolare non è contenuta fortunatamente una clausola di retroattività. Certo, è sempre tutto possibile e magari può essere anche un suggerimento, dal momento che il relatore è in Aula, ad inventarsi qualcosa di qui a quando si sarà concluso il nostro dibattito in Senato, magari introducendo una misura secondo la quale i nati dopo la fondazione della Repubblica italiana non possono più avere alcun diritto relativamente al proprio corpo, però al momento questa eventualità non esiste.

Si tratta di un testo ispirato solo ed esclusivamente ai princìpi di responsabilità e libertà, come previsto dalla Carta costituzionale - e come invece patentemente violato dal testo di legge in esame - e dal codice deontologico dei medici.

Siccome i nostri lavori sono pubblici, grazie a Radio radicale, e siccome ciò che viene detto viene registrato fino all'ultimo sospiro, e poi è anche possibile consegnare documenti, con il vostro permesso darò lettura del mio testamento biologico. A differenza di altri però, invece di citare canzonette, mi piacerebbe che uno specifico requiem di musica classica, da suonare nel momento in cui la vita non c'è più, facesse da colonna sonora, ad esempio uno di quei requiem che Radio radicale utilizza da quando neglianni Ottanta i radicali, loro sì con una militanza quotidiana per il diritto e quindi per il diritto alla vita, ebbe inizio la campagna contro lo sterminio per fame nel mondo.

Inizia così il mio testamento biologico: «Io sottoscritto, Marco Perduca, nato il 28 aprile 1967 a Firenze, provincia di Firenze, e residente a Firenze, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali e in totale libertà di scelta, dispongo in maniera vincolante quanto segue in merito alle decisioni da assumere nel caso in cui io dovessi necessitare di cure mediche.

Relativamente al consenso informato, voglio essere informato sul mio stato di salute e sulle mie aspettative di vita, anche se fossi affetto da malattia grave e non curabile. Voglio essere informato sui vantaggi e sui rischi degli esami diagnostici e delle terapie. In caso di perdita della capacità di decidere o nel caso di impossibilità di comunicare le mie decisioni ai medici, formulo le seguenti disposizioni riguardo ai trattamenti sanitari, disposizioni che perderanno validità se, ripresa la piena conoscenza, decidessi di annullarle o sostituirle.

Dispongo che non siano continuati, se il loro risultato fosse il mantenimento in uno stato di incoscienza permanente e senza possibilità, detti trattamenti o che non siano continuati se il loro risultato fosse il mantenimento in uno stato di demenza avanzata senza la possibilità di recupero.

Con riferimento alle disposizioni particolari dispongo che, qualora avessi una malattia allo stadio terminale o una lesione cerebrale invalidante o irreversibile o una malattia che necessiti l'utilizzo permanente di macchine o se fossi in uno stato di permanente incoscienza, coma persistente o stato vegetativo, considerata irreversibile, ai miei medici dispongo che siano intrapresi tutti i provvedimenti volti ad alleviare le mie sofferenze, come l'uso di farmaci oppiacei, anche se il ricorso ad essi rischiasse di anticipare la fine della mia vita.

Non voglio che mi siano praticate forme di respirazione meccanica. Non voglio essere idratato o nutrito artificialmente.

Nomino come fiduciario la qui presente senatrice Donatella Poretti, poiché qualora io perdessi la capacità di decidere o di comunicare le mie decisioni voglio che il mio fiduciario - credo che la fiducia sia basata sulla pratica quotidiana di attività parlamentare - si impegni a garantire lo scrupoloso rispetto delle mie volontà espresse nella presente carta. Donatella Poretti, nata il 14 febbraio 1968 ad Arezzo, provincia di Arezzo; residente a Firenze, provincia di Firenze.

Relativamente invece all'assistenza religiosa, non desidero averne alcuna né avere un funerale religioso.

Le mie disposizioni dopo la morte sono l'autorizzazione alla donazione dei miei organi per trapianti e l'autorizzazione alla donazione del mio corpo per scopi medici e scientifici.

Ritengo di dover essere cremato una volta morto».

Questo è uno dei testamenti biologici che le due associazioni che ricordavo poco fa, «Luca Coscioni» e «A Buon diritto», hanno iniziato a raccogliere in giro per l'Italia. Credo sarà necessario consegnarli al Presidente del Senato e al Presidente della Camera nelle prossime ore per manifestare ciò che gli italiani vorrebbero regolamentasse le fasi finali della loro vita. Certo non questo testo di legge. Un testo che in effetti, tolte tre sue parti, potrebbe anche essere qualcosa di vicino agli articoli 2, 13 e 32 della nostra Costituzione e sicuramente in linea con quanto esiste e norma questo tipo di fase finale della nostra esistenza in molti altri Paesi d'Europa.

Ma esiste, lo ricordava poco fa, quando sembrava quasi di assistere alla scena di uno spettacolo sarcastico, la senatrice Colli, il comma 6 dell'articolo 3 in cui si dice: «In armonia con la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006»... (Il senatore Perduca fa una smorfia di disappunto) ... - se si potesse descrivere appieno la mia espressione facciale già si capirebbe lo sconforto dal punto di vista, sia legale sia medico - «l'alimentazione e l'idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento».

Nell'estate del 2003 sono stato ricoverato in un ospedale di New York e per cinque giorni non ho potuto, né mangiare né bere. In effetti questi sostegni vitali, come li ritiene il senatore Calabrò, sono stati fondamentali per rimanere in vita. Mi veniva soltanto bagnata la lingua con un "cotton fioc" imbevuto di una qualche sostanza, perché in effetti non mangiavo né bevevo. Ero ricoverato in chirurgia perché a rischio di peritonite per una diverticolite.

Però non tutti hanno avuto la fortuna di essere ricoverati per poche ore. C'è chi invece arriva ad una fase della propria vita in cui probabilmente tutti questi sostegni vitali non alleviano le sofferenze anzi, e lo ricordavo poco fa, costituiscono vera e propria tortura quotidiana per qualcuno che coscientemente vorrebbe invece porre fine a questa esistenza non più degna di morire.

È stato ricordato più volte, forse troppe volte, il caso di Eluana Englaro. Il collega Massidda non è più tra noi, nel senso che ha lasciato l'Aula, ma avrebbe potuto ricordare il caso del suo compaesano Giuseppe Nuvoli, qualcuno che voleva porre fine alla sua esistenza, perché ormai ridotto ad un mucchio di ossa e pelle (35 chili, addirittura 28 in una certa fase della sua vita), dopo che era stato arbitro di calcio. Un uomo che ha portato alle estreme conseguenze la sua non violenza, privandosi di cibo e acqua, per porre fine a delle sofferenze atroci, malgrado la casa fosse quotidianamente circondata dai carabinieri e le campagne intimidatorie di tutti gli amministratori locali che circondavano la zona dove viveva in Sardegna. Solo grazie - credo - all'amore e alla tenacia di sua moglie è riuscito finalmente a porre fine ad un'esistenza fatta di atroci sofferenze.

L'altra persona che credo abbia contribuito molto a far sapere agli italiani che cosa sia quella fase di vita in cui si è sottoposti a una tortura indicibile, ma, vista l'esperienza della persona che sto per citare, sopportabile esclusivamente perché la si pone al centro della propria militanza politica, è l'ex co-Presidente dell'Associazione Luca Coscioni: Piergiorgio Welby, membro anche del Partito radicale. Forse alcuni di voi ricorderanno che il 21 settembre 2006 Welby, che non poteva scrivere se non grazie a un sofisticatissimo marchingegno elettronico, volle scrivere al Presidente della Repubblica per manifestare la propria volontà di porre fine a una vita che non riteneva essere più degna.

Ancora una volta - chiedo scusa di appesantire il mio intervento con un'altra lettura - credo sia fondamentale che agli atti di questo dibattito restino le parole di Piergiorgio Welby. Scriveva Welby al presidente Napolitano: «Caro Presidente, scrivo a lei, e attraverso lei mi rivolgo anche a quei cittadini che avranno la possibilità di ascoltare queste mie parole» - e in effetti molti la ebbero in quella fase - «questo mio grido, che non è di disperazione, ma carico di speranza umana e civile per questo nostro Paese.

Fino a due mesi e mezzo fa» - stiamo parlando del settembre del 2006 - «la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno per qualche ora del giorno potevo, con l'ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche, incontrare amici su Internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da dove non trovo uscita. La giornata inizia con l'allarme del ventilatore polmonare mentre viene cambiato il filtro umidificatore e il catheter mounth, trascorre con il sottofondo della radio, tra frequenti aspirazioni delle secrezioni tracheali, monitoraggio dei parametri ossimetrici, pulizie personali, medicazioni, bevute di pulmocare.

Una volta mi alzavo al più tardi alle dieci e mi mettevo a scrivere sul pc. Ora la mia patologia, la distrofia muscolare, si è talmente aggravata da non consentirmi di compiere movimenti, il mio equilibrio fisico è diventato molto precario. A mezzogiorno con l'aiuto di mia moglie e di un assistente mi alzo, ma sempre più spesso riesco a malapena a star seduto senza aprire il computer perché sento una stanchezza mortale.

Mi costringo sulla sedia per assumere per almeno un'ora una posizione differente da quella supina a letto. Tornato a letto, a volte mi assopisco, ma mi risveglio spaventato, sudato e più stanco di prima. Allora faccio accendere la radio ma la ascolto distrattamente. Non riesco a concentrarmi perché penso sempre a come mettere fine a questa vita. Verso le sei faccio un altro sforzo a mettermi seduto, con l'aiuto di mia moglie Mina e di mio nipote Simone.

Ogni giorno vado peggio, sempre più debole e stanco. Dopo circa un'ora mi accompagnano a letto. Guardo la tv, aspettando che arrivi l'ora della compressa del Tavor per addormentarmi e non sentire più nulla e nella speranza di non svegliarmi la mattina. Amo la vita. Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo, ma sono italiano e qui non c'è pietà. Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una "morte dignitosa".

No, non si tratta di questo. E non parlo solo della mia, di morte. La morte non può essere "dignitosa"; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili. La morte è altro. Definire la morte per eutanasia "dignitosa" è un modo di negare la tragicità del morire. È un continuare a muoversi nel solco dell'occultamento o del travisamento della morte che, scacciata dalle case, nascosta da un paravento negli ospedali, negletta nella solitudine dei gerontocomi, appare essere ciò che non è.

In Italia l'eutanasia è reato, ma ciò non vuol dire che non "esista": vi sono richieste di eutanasia che non vengono accolte per il timore dei medici di essere sottoposti a giudizio penale e viceversa, possono venir praticati atti eutanasici senza il consenso informato dei pazienti coscienti. Per esaudire la richiesta di eutanasia, alcuni Paesi europei come Olanda, Belgio» - l'Ufficio studi del Senato aveva predisposto una documentazione in questo senso - «hanno introdotto delle procedure che consentono al paziente "terminale" che ne faccia richiesta di programmare con il medico il percorso di "approdo" alla morte opportuna. Una legge sull'eutanasia non è più la richiesta incomprensibile di pochi eccentrici.

Anche in Italia, i disegni di legge depositati nella scorsa legislatura» - era quindi la XIV - «erano già quattro o cinque. L'Associazione degli anestesisti, pur con molta cautela, ha chiesto una legge più chiara. Il recente pronunciamento dello scaduto e non ancora rinnovato Comitato nazionale per la bioetica» - siamo sempre nel settembre 2006 - «ha messo in luce la impossibilità di escludere ogni eventualità eutanasica nel caso in cui il medico si attenga alle disposizioni anticipate redatte dai pazienti.

Anche nella diga opposta dalla Chiesa cattolica, si stanno aprendo alcune falle, che, pur restando nell'alveo della tradizione» - ricordava Piergiorgio Welby - «permettono di intervenire pesantemente con le cure palliative e di non intervenire con terapie sproporzionate, che non portino benefici concreti al paziente.

L'opinione pubblica è sempre più cosciente dei rischi insiti nel lasciare al medico ogni decisione sulle terapie da praticare. Molti hanno assistito un familiare, un amico, un congiunto durante una malattia incurabile e altamente invalidante ed hanno maturato la decisione di - se fosse capitato a loro - non percorrere fino in fondo la stessa strada. Altri hanno assistito alla tragedia di una persona in stato vegetativo persistente.

Quando affrontiamo le tematiche legate al termine della vita, non ci si trova in presenza di uno scontro tra chi è a favore della vita e chi è a favore della morte. Tutti i malati vogliono guarire, ma non morire. Chi condivide con amore il percorso obbligato che la malattia impone alla persona amata desidera chiaramente la sua guarigione. I medici, resi impotenti da patologie finora inguaribili, sperano nel miracolo laico e nella ricerca scientifica. Tra desideri e speranze, il tempo scorre inesorabile e, con il passare del tempo, le speranze si affievoliscono e il desiderio di guarigione diventa desiderio di abbreviare un percorso di disperazione, prima che arrivi a quel termine naturale che le tecniche di rianimazione o i macchinari che supportano o simulano le funzioni vitali riescono a spostare sempre più avanti nel tempo.

Per il modo con cui le nostre possibilità tecniche ci mantengono in vita, verrà un giorno che dai centri di rianimazione usciranno schiere di morti viventi. Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente biologica, io credo» - diceva ancora Piergiorgio Welby, in questa sua lettera al presidente Napolitano - «che questa sua volontà debba essere rispettata e accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico.

Sono consapevole di avere parlato anche, attraverso il mio corpo malato, di politica».

E in effetti Piergiorgio Welby, in quegli 89 giorni, ha fatto forse più politica non soltanto di tutti i parlamentari, ma anche di tutti i militanti che cercavano di stargli attorno quanto più possibile nella sua lotta non violenta per affermare la dignità di porre fine alla propria vita.

Il signor Luca Coscioni voleva liberare la ricerca e dar voce in tutti i sensi ai malati. Il suo sogno è stato interrotto e solo dopo ciò egli è stato conosciuto. Lo stesso si può dire di Piergiorgio Welby, al quale la Chiesa ha anche rifiutato i funerali religiosi.

Noi qui, da oggi, siamo chiamati a portare a termine un disegno di legge che non potrà consentire più la pratica delle libertà costituzionalmente codificate e garantite. Il senatore De Lillo ha detto che l'iter del disegno di legge si concluderà in Senato alla vigilia della convocazione del congresso del Popolo della libertà. Ebbene, voi avete voluto riscrivere questa nuova terminologia relativa al sostegno vitale, quando si parla di idratazione e alimentazione. Spero che da questa acquasantiera, con cui benedirete la creazione del più grande partito italiano, ci facciate anche sapere cosa intendiate con il termine «libertà». (Applausi dei senatori Poretti e Vita).

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