Nelle ultime settimane, il governo è stato protagonista in politica estera. La diplomazia ha avuto un ruolo nella crisi in Georgia e, successivamente, in un accordo firmato con la Libia. Secondo il senatore Marco Perduca, radicale eletto tra le fila del Pd, membro della Commissione Esteri del Senato, le scelte del governo sono alquanto rivedibili.
L’Italia ha firmato un “patto di amicizia” con la Libia. Lei si è dichiarato contrario a questa decisione del governo. Prevede un’interrogazione in parlamento
Credo che tanto i parlamentari quanto i cittadini debbano conoscere sia il perché di questa fretta nel presentare il patto a Gheddafi, sia il perché al Governo stanno a cuore maggiormente gli interessi del regime libico che quelli di decine di migliaia di suoi cittadini cacciati dalla Libia. Inoltre, non credo che, conoscendo la ferocia del regime del Colonnello vi sia la minima speranza che un centesimo di quei 5 miliardi possa finire ai libici, che sicuramente avranno avuto parenti vittime del colonialismo. Il 2 settembre ho sentito il sottosegretario Urso far notare che, a seguito dell’accordo firmato il primo del mese, alle imprese italiane sarà garantito un trattamento di favore nell’assegnazione (dubito che a Gheddafi piacciano le gare d’appalto) degli oltre 150 miliardi di dollari delle commesse per infrastrutture che Tripoli ha stanziato qualche mese fa. Se si trattava di un “investimento affaristico” per beneficiare degli imprenditori italiani, perché non si è trovato il modo di risarcire tanto gli esuli quanto gli stessi imprenditori vittime del regime?
L’americano Daniel Pipes ha dichiarato che questo accordo rappresenta un “pericoloso precedente”: nulla impedisce ora ad altri Paesi africani di chiedere i danni di riparazione per il periodo coloniale. E’ d’accordo?
Alla vigilia della conferenza anti-razzista di Durban delle Nazioni Unite, proprio la Libia, col Kenya, si mise a capo di un movimento africano che vide agire insieme per la prima volta governi e Ong, perché quell’appuntamento portasse all’incasso 500 milioni per sfruttamenti dei Paesi ricchi nei confronti dell’Africa. Nessun paese con passato da colonia accettò. Gli europei non accettarono perché non volevano creare un precedente, forse. Ma forse non accettarono perché quei soldi avrebbero mantenuto saldamente al potere i nuovi schiavisti. Non si tratta di esser contro i danni di guerra, ma di cogliere l’occasione per una riconciliazione che sia simbolica e concreta, che in entrambi i casi porti dei benefici a persone, non a governanti arcinoti per le loro politiche anti-democratiche.
Oltre che con la Libia, la diplomazia italiana è stata impegnata nella crisi in Georgia. Qual è la Sua opinione sull’atteggiamento tenuto dall’Italia?
Tanto Frattini quanto Fassino, ahimè, hanno ribadito la necessità di mantenere un equilibrio nella posizione italiana per “non isolare la Russia”. Per come vanno le cose all’interno dell’Ue, non mi pare però vi sia alcuna ambiguità in questo atteggiamento. Personalmente, ritengo che porre sempre e solo l’accento sul possibile allargamento della Nato verso Est, o limitare il lato europeo alla ricerca di una politica di sicurezza comune, ammazzi quell’arma di attrazione di massa che l’Ue aveva rappresentato per gli ex-soggiogati dal Patto di Varsavia.
Qual è la posizione dei radicali sulla questione georgiana e i rapporti con la Russia?
Da oltre vent’anni abbiamo cercato di sostenere le richieste di politici, dissidenti, e militanti per la libertà dei Balcani come del Caucaso ad essere considerati, e quindi trattati da Europei. Abbiamo decine di iscritti anche illustri in Albania, Kosovo, Croazia e Georgia. Da tempo collaboriamo con la “Unrepresented Nations and Peoples Organization” di cui fanno parte, per esempio, gli Abkhazi. Fin dall’inizio della guerra georgiana abbiamo chiesto ai Ministri Ue di convocare una riunione urgente del Cagre e di tenerlo a Tbilisi. La presenza dei capi della diplomazia di 27 Paesi avrebbe fatto da deterrente nei confronti dell’armata russa. Quando l’ho ricordato a Frattini, si è messo a ridere. Subito dopo, oltre a chiedere che si facesse pressione su Tbilisi e Mosca perché fossero invitati gli investigatori della Corte Penale Internazionale, abbiamo chiesto che si organizzasse una conferenza per la pace nella regione transcaucasica. Il 20 agosto, con l’eurodeputato Marco Cappato abbiamo presentato un rapporto dell’Unpo in cui si passavano in rassegna almeno un’altra mezza dozzina di fronti tra il Mar Nero e il Mar Caspio chiedendo che tutti quei popoli fossero invitati al tavolo della ricerca della pace per quella regione. Se prendiamo in considerazione l’uccisione, ma forse dovremmo chiamarle esecuzioni, di giornalisti indipendenti in Inguscezia, Daghestan e Kabardino Balkaria, i ritorni di fiamma nel Nagorno Karabakh, le minacce di Medvedev al Presidente moldavo circa la Transdnistria, e infine la crisi ucraina di questi giorni, penso che siamo stati, purtroppo, facili profeti.
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