L'Italia ha recentemente firmato un "patto di amicizia" con la Libia. Come gesto di riparazione per il periodo coloniale, il nostro Paese pagherà alla Libia 5 miliardi di dollari nei prossimi 25 anni. Si è dichiarato contrario a questa decisione del governo, la quale non prevede alcuna contropartita nei confronti degli italiani espulsi dal regime di Gheddafi. Prevede un'interrogazione in parlamento?
Non solo. Credo che tanto i parlamentari quanto i cittadini debbano conoscere sia il perché di questa fretta nel presentare il patto a Gheddafi - tra l'altro dandogli la possibilità di celebrare l'anniversario della sua rivoluzione, "evolutasi" in una delle peggiori dittature del Nord Africa, con un assegno in bianco - sia il perché al Governo stanno a cuore maggiormente gli interessi del regime libico che quelli di decine di migliaia di suoi cittadini cacciati dalla Libia dagli anni '80. Tra l'altro, non credo che, conoscendo la ferocia del regime del Colonnello, della stessa scuola baathista, vi sia la minima speranza che un centesimo di quei 5 miliardi possa finire ai libici che sicuramente avranno avuto parenti vittime del colonialismo. Il 2 settembre ho sentito a “Radio Anch'io” il sottosegretario Urso far notare che a seguito dell'accordo firmato il primo del mese, alle imprese italiane verrà garantito un trattamento di favore nell'assegnazione (dubito che a Gheddafi piacciano le gare d'appalto) degli oltre 150 miliardi di dollari delle commesse per infrastrutture che Tripoli ha stanziato qualche mese fa. Bene, anzi male, ma se si trattava di un "investimento affaristico" per beneficiare degli imprenditori italiani perché non si e' trovato il modo di risarcire tanto gli esuli quanto gli imprenditori italiani vittime del regime di Gheddafi? Si tratta di un miliardo di euro.
L'americano Daniel Pipes ha dichiarato che questo accordo rappresenta un "pericoloso precedente". Nulla impedisce ora ad altri Paesi, come per esempio l'Algeria, di chiedere i danni di riparazione per il periodo coloniale. È d'accordo?
Alla viglia della conferenza anti-razzista di Durban delle Nazioni Unite, proprio la Libia, col Kenya, si mise a capo di un movimento africano, che vide agire insieme per la prima volta governi e ONG, perché quell'appuntamento portasse all'incasso 500 di sfruttamenti dei paesi ricchi nei confronti dell'africa, dalla tratta degli schiavi al colonialismo allo sfruttamento delle risorse naturali. Nessun paese con passato da colonia accettò e anche il Senegal prese le distanze dall'operazione ghedafiana. Il tutto si risolse col solito attacco dei "Non Allineati" a Israele e la ripetizione dello slogan “sionismo uguale razzismo”. Gli europei non accettarono perché non volevano creare un precedente? Forse, ma forse non accettarono perché quei soldi avrebbero mantenuto saldamente al potere i nuovi schiavisti. Non si tratta di esser contro i danni di guerra, si tratta però di cogliere l'occasione per una riconciliazione che sia simbolica e concreta ma che in entrambi i casi porti dei benefici a persone e non ai governanti di comunità arcinoti per le loro politiche anti-democratiche.
Qual è la Sua opinione sull'atteggiamento tenuto dall'Italia nel corso della crisi in Georgia? Recentemente, il ministro Frattini ha dichiarato che l'Italia è "con Bush, ma anche con Putin". Non si tratta di una politica un po' ambigua, specialmente nei confronti degli alleati occidentali, quali NATO e UE?
Tanto Frattini quanto Fassino, ahimè, hanno ribadito la necessità di mantenere un equilibrio nella posizione italiana per non isolare la Russia. Per come vanno le cose all'interno dell'UE non mi pare però che vi sia alcuna ambiguità in questo atteggiamento: le tante piccole patrie europee pensano ai propri tanti, e piccoli interessi e affari, cancellando sempre più la portata politica di pace, libertà e prosperità che una grande patria europea potrebbe garantire tanto a chi vive dentro quanto a chi ancora e' costretto a restarne fuori. Personalmente ritengo che porre sempre e solo l'accento sul possibile allargamento della NATO verso Est oppure limitare il lato europeo alla ricerca di una politica di sicurezza comune ammazza quell'arma di attrazione di massa che l'Unione europea aveva rappresentato per gli ex-soggiogati dal Patto di Varsavia.
Non abbiamo una posizione. Da oltre vent'anni abbiamo cercato di raccogliere e sostenere le richieste di politici, dissidenti, e militanti per la libertà dei Balcani come del Caucaso ad essere considerati, e quindi trattati, Europei. Abbiamo ancora decine di iscritti in Albania (tra i quali l'ex Primo Ministro Pandeli Majko), Kosovo (tra i quali il presidente Fatmir Sedjiu), Croazia (tra i quali la leadership del Partito socialdemocratico) e Georgia (tra i quali l'ex vice Ministro alla risorse naturali Mamuka Tsagareli). Da tempo collaboriamo anche con la Unrepresented Nations and Peoples Organization di cui fanno parte per esempio gli Abkhazi. Nelle nostre iniziative abbiamo sempre cercato di favorire il dialogo ogni qualvolta fossimo di fronte a interlocutori che si ponevano il problema di ricerca una soluzione ai loro conflitti che portasse libertà e benessere e non fosse un mero di cambio della guardia tra oligarchie. Fin dall'inizio della guerra georgiana abbiamo chiesto a Frattini e agli altri Ministri dell'UE di convocare una riunione urgente del CAGRE già l'8 agosto, mentre in molti applaudivano il regime cinese nello stadio di Pechino, e di tenerlo a Tiblisi. La mera presenza dei capi della diplomazia di 27 paesi avrebbe funto da potentissimo deterrente nei confronti dell'armata russa. Quando il 26 l'ho ricordato a Frattini - audito dalle Commissioni esteri del Parlamento – si è messo a ridere. Immediatamente dopo, oltre a chiedere che si facesse pressione su Tiblisi e Mosca perché fossero invitati gli investigatori della Corte penale internazionale e alle altre corti internazionali competenti a giudicare le violazioni che I due belligeranti si imputavano reciprocamente, abbiamo chiesto che si organizzasse una conferenza per la pace nella regione transcaucasica. Il 20 agosto, con l'eurodeputato radicale Marco Cappato abbiamo presentato un rapporto dell'UNPO in cui si passavano in rassegna almeno un'altra mezza dozzina di fronti tra il Mar Nero e quello Caspico chiedendo che tutti quei popoli fosse invitati al tavolo della ricerca della pace per quella regione, coinvolgere solo i governi o le organizzazioni internazionali non avrebbe raggiunto molte delle vene scoperte di quella parte d'Europa. Se prendiamo in considerazione l'uccisione, ma forse dovremmo chiamarle esecuzioni, di giornalisti indipendenti in Inguscezia, Daghestan e Kabardino Balkaria, i ritorni di fiamma nel Nagorno Karabakh, le minacce di Medvedev al Presidente moldavo circa la Transniestria del 26 agosto, e infine la crisi ucraina di questi giorni, penso che siamo stati, purtroppo, facili profeti. Il 3 settembre una risoluzione del PE ha fatto propria quella proposta di conferenza di pace regionale aperta anche ai non rappresentati.
Nei giorni scorsi, nelle repubbliche del Caucaso, sono stati uccisi due giornalisti, critici di Putin e della Russia. In più di un'occasione i radicali hanno denunciato la scomparsa sospetta di numerosi giornalisti ostili al governo russo. C'è speranza che questo fenomeno si possa fermare?
La speranza può esser l'ultima a morire se, come ripete - e pratica - Marco Pannella, anche in situazioni "disperate" c'è chi diviene speranza. Il partito Radicale è un partito di circa 2mila iscritti, 2mila persone che coi loro soldi e tempo hanno dato un contributo fondamentale a che potessimo avere un ufficio a Mosca per quasi 20 anni, dove il mio concittadino dirigente Radicale Andrea Tamburi è stato trovato morto in circostanze ancora misteriose oppure hanno sostenuto anche l'opera di un giornalista militante come Antonio Russo ucciso a Tiblisi 8 anni fa alla vigilia di un voto chiesto da Mosca al Consiglio economico e sociale dell'ONU per espellere il Partito Radicale dallo status consultivo di cui gode dal 1995. Finché resistono quei 2mila, a cui non credo saremo tutti mai abbastanza grati, la speranza ha una chance.
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